Jorn de Précy (1837-1916) giardiniere filosofo il cui magnum opus è il giardino di Greystone, nel suo libro The Lost Garden afferma che i giardini sono i luoghi che meglio riescono a preservare la propria anima e che la stupidità della civiltà non riesce a edulcorare facilmente, essendo questi un’esperienza di bellezza e di mistero la cui materia prima è la natura e dunque la vita stessa. Roberto Burle Marx (1909-1994) disse di aver compreso il nesso tra giardino e spiritualità leggendo il libro di de Précy.
Il parco di Villa Durazzo Pallavicini a Pegli, nel ponente di Genova è un giardino intriso di sentimento e informato dalla spiritualità dall’uomo che intende se stesso giardiniere del mondo. Esempio emblematico del giardino romantico inglese ottocentesco in cui si cerca di imitare la natura per migliorarla, Villa Pallavicini è un luogo incantato in cui tutto appare spontaneo, ma dove invece l’insieme è stato progettato nella minuzia per suggerire l’idea di naturalità, compreso il fluire sincero delle acque per ottenere il quale nella villa è stato costruito un acquedotto di ben 8 chilometri. L’idea centrale è quella di suturare la lacerazione tra l’uomo e la natura prodotta dalla civiltà, per ritrovare con la poesia e la bellezza il divino, di cui ognuno di noi, vegetali e animali, incarna un frammento.
Costruito tra il 1840 e il 1846 il parco fu il sogno filantropico di Ignazio Alessandro Pallavicini, (1800-1871) esponente di una famiglia di spicco di Genova, risorgimentalista ardente e massone che incaricò l’architetto e pittore Michele Canzio (1787-1868), già scenografo del Teatro Carlo Felice, anch’egli membro della scuola di segreto. Il giardino fu immaginato come un viaggio iniziatico graduale di matrice esoterica: dall’apprendista al compagno d’arte fino al maestro, all’uomo giusto. Si tratta di una sorta di meditazione attiva in cui talvolta il visitatore è protagonista e altre volte spettatore, acusmatico e matematico direbbero i pitagorici.
La peculiarità di questo giardino speciale è la sua organizzazione teatrale, in cui anche il mare e, a levante, la lanterna di Genova con il monte di Portofino sono assimilabili a una quinta teatrale, tra le altre. Il melodramma si sviluppa in tre atti di quattro scene ciascuno, un prologo e un antefatto e infine l’esodo. Per costruire il parco in sei anni di lavoro, furono impiegati 350 uomini, provenienti dalla piccola Pegli, dove l’instabilità politica del tempo aveva causato grande miseria. La narrazione si sviluppa in due chilometri e mezzo di percorso, circa otto ettari di terreno a un’altezza, sulla cima della collina, di 124 metri sul mare. Un percorso prevalentemente in salita da compiere in un solo senso, come la vita. In qualche modo una sorta di biografia botanica, in cui appaiono architetture neoclassiche, neogotiche, grotte, laghi e cascate.

Il visitatore come in tutti i viaggi iniziatici, deve superare delle porte prima di entrare nel vivo dell’opera; qui sono tre: il cancello dei molossi ringhianti, la Coffee House e l’arco di Trionfo, con un’iscrizione latina che induce ad abbandonare la civiltà per rivolgersi alla natura. Dopo la prima porta, il lecceto denso rimanda alla selva oscura dantesca. Passata la Coffee House si percorre il viale classico, ordinato ed elegante con i suoi vasi in marmo e la fontana con le ninfee e l’arco di trionfo, che sul versante opposto si trasforma in una baita montana. Ci troviamo nella prima scena del I atto, il romitaggio, protagonista è la natura e la sua capacità terapeutica sul visitatore, segue l’oasi mediterranea con le sue palme e le piante succulente e poi il meraviglioso camelieto, il più antico e prezioso d’Italia, sul cui sentiero, tra l’inverno e la primavera, i petali dei fiori formano un tappeto rosso fiabesco e, infine, l’orrido del Lago Vecchio con alberi antichi come il mondo. Tema attuale quello del II atto, in cui il visitatore è lo spettatore della Storia: la storia narrata tratta di assedi e di guerre, dove anche i vincitori appaiono vinti dalla morte che prima o poi arriva, indipendentemente dalle glorie. Qui ci si trova in una macchia mediterranea che ha lasciato alle spalle gli artifici botanici del I atto. In cima alla collina la casa neogotica del capitano con base quadrata ha al suo interno una disorientante scala a chiocciola i cui 33 scalini conducono alla torretta con vista a 360° e vetrate policrome orientate con il colore ai punti cardinali. Il mausoleo del capitano è più avanti, senza nome, ispirato alla tomba di Cangrande della Scala a Verona. Poi comincia la discesa verso gli Inferi, nelle grotte, per le quali sono state prelevate stalagmiti e stalattiti altrove e sistemate qui. Le grotte sono state pensate dal Canzio per essere attraversate in barca traghettati da un Caronte, e anche se ora le barche sono ormeggiate, uscire sul Lago Grande, il Paradiso, è comunque una sorpresa. Qui le diverse culture si riflettono in armonia sulle acque verdi: il tempietto di Diana, il chiosco cinese e quello turco, il ponte romano e l’obelisco egizio. L’Empireo è il padiglione di Flora, il suo delicato giardino e il viridario. Appare ai bordi del Lago Grande il busto del poeta barocco ligure Gabriello Chiabrera. L’esodo finale con il coccodrillo e l’aquila in ceramica lasciano il visitatore rinnovato al suo cammino.