In un’intervista di cinque anni fa per La Repubblica, Stella Cervasio chiedeva a Giorgio Agamben – ospite per l’occasione dell’Istituto italiano per gli studi filosofici con la presentazione dell’edizione integrale del suo noto Homo Sacer – per quale motivo o casualità non mettesse piede a Napoli dal lontano 1996. Ho sempre trovato illuminante la concisa risposta del filosofo, che con naturalezza afferma di non averne avuto occasione. Risposta semplice che tuttavia ha un significato particolare per me, che ho scelto via Monte di Dio, proprio il palazzo di fianco al settecentesco Serra Di Cassano, per ampliare e sostenere la mia visione della galleria e del fare il gallerista.

Il palazzo settecentesco, opera dell’architetto Ferdinando San Felice, prende il nome dalla famiglia proprietaria, Serra Di Cassano, menzionata spesso e volentieri, in relazione alle vicende della Repubblica Napoletana del 1799. Gennaro Serra, infatti, retoricamente ricordato come il primo decapitato nell’epilogo della rivoluzione, detta le sorti della famiglia e del ricordo della stessa. La scelta quindi del palazzo come sede dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici si pone, come sottolineato in un saggio da Domenico Losurdo, che cita Gerardo Marotta, fondatore dell’Istituto, come preciso atto politico e costitutivo, in opposizione a posizioni parassitarie, ma di continuità con la storia di una capitale europea, spesso protagonista di fatti storici fondanti per il paese. L’Istituto quindi in linea diretta con la tradizione intellettuale cittadina alla quale fa riferimento, delinea e ricerca un rinnovato prestigio attraverso l’azione di ricerca, studio e coinvolgimento culturale, nazionale e internazionale.

Un’occasione, ecco cosa sono per me quel palazzo e il quartiere che lo ospitano, sicuramente vittima di una facile retorica, di una storia legittimante fatta di rivoluzionari giustiziati, di primi Partenopei e viste mozzafiato, ma che – al di là di cenni storiografici e virgiliane escatologie storiche dal mio punto di vista neanche troppo interessanti – porta con se i segni, i gesti, per citare ancora Agamben, di una Napoli non culturalmente povera, ma disorganizzata, viva; che non vede occasioni per volontà, occasioni per raggiungere un fine, che ha nella sua inoperosa gestualità una interessante e peculiare chiave di lettura. Un quartiere dal nome ai limiti del blasfemo, un palazzo che non è solo un contenitore di ansie da preservazione di roba vecchia e ospita un istituto che scrive pagine importanti della ricerca intorno alla contemporaneità.
